Postiamo, in riferimento alla "riforma Gelmini", un articolo comparso su "Le Scienze" lo scorso 8 Gennaio.
Molte novità bollono nelle pentole di UnimOnda: a presto vi faremo sapere i nuovi sviluppi. Se foste interessati, sentitevi liberi di contattarci.
site: http://cattaneo-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/01/08/gelmini-vuol-dire-fiducia/
GELMINI VUOL DIRE FIDUCIA di Marco Cattaneo
E la fiducia, diceva una pubblicità di quando ero bambino (in quel secolo le chiamavamo reclame), è una cosa seria. E si dà alle cose serie. Invece il testo definitivo del Decreto Gelmini sull’Università convertito in legge questa mattina dalla Camera con voto di fiducia non è una cosa seria.
Forse è grave – come direbbe Flaiano – ma non è seria.
Perché i casi sono due: o la Legge Gelmini – a differenza di quanto il ministro declama davanti ai microfoni – è inutile e poco coraggiosa, e allora valeva la pena di darle un titolo meno pomposo di “disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca”; oppure è importante, utile e coraggiosa, e allora meritava la discussione parlamentare, e le eventuali modifiche, perché è il Parlamento il luogo deputato a discutere delle grandi riforme che possono decretare i destini futuri del paese. E una riforma seria dell’università può essere un segnale per invertire la rotta verso il Medioevo che l’Italia ha imboccato da tempo.
A prima vista, al di là delle dichiarazioni ufficiali, questa legge approvata di fretta mi sembra il solito pasticcio all’italiana. Un vorrei ma non posso che confonde, anziché chiarire. Che antepone la virtù del risparmio alla qualità del lavoro, per esempio. Chiamando “virtuose” le università che hanno i conti a posto. A prescindere. Poco importa se siano buone dal punto di vista didattico, se vi si faccia ricerca d’eccellenza.
E poi, si sa, la maggior parte delle università sono aggregati eterogenei: magari c’è una Facoltà di giurisprudenza (o di medicina) sprecona con molti iscritti e baroni dislocati tra il Parlamento e i consigli d’amministraizone che contano, e un minuscolo dipartimento di chimica industriale efficiente, con quattordici studenti ma docenti capaci, che creano una scuola, che generano reddito. Nella logica della Legge Gelmini, i secondi pagheranno anche per i primi. E se un ateneo non avrà i conti a posto non potrà accedere a quel 7 per cento del fondo di finanziamento ordinario destinato ai “virtuosi” (poco, il sette per cento, se si voleva premiare la virtù) in base alle pagelle assegnate dal Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario.
Peggio mi sento se guardo alle nuove norme per i concorsi. Cencellianamente parlando, sono un caplavoro di equilibrismo conservativo. Quattro membri della commissione saranno sorteggiati da una lista nazionale e uno nominato dallo stesso ateneo (due e uno per i posti da ricercatore). Nel paese dei furbetti e dei parenti di ogni ordine e grado, non mi sembra una scelta che possa alterare lo scenario di accordi sottobanco che ha riempito le cronache degli ultimi anni (decenni?). Forse dà qualche responsabilità in più alla classe docente, ma i nomi e le facce che amministreranno i concorsi saranno gli stessi che lo hanno fatto fino a oggi, e non si vede perché coloro che valutano in base al merito dovrebbero prevalere oggi dove non hanno prevalso fino a ieri. Per gli altri, per i baroni, un modesto incentivo – come l’accesso al mitico sette per cento – potrebbe non bastare per invogliarli a scardinare un sistema distorto.
Ne esce, a mio parere, una visione dell’università a responsabilità limitata. Perché se uno si è sempre accontentato del minimo sindacale (o anche meno) non vedo come una simile norma possa spingerlo a scegliere collaboratori migliori, a premiare i giovani più brillanti, a promuovere il merito, obiettivo dichiarato della nuova normativa. Si è sì responsabili, ma fino a un certo punto. E si è sì premiati, ma fino a un certo punto. Non si è mai puniti.
Meglio va forse sul fronte degli scatti di anzianità. Anche se pure qui la sostanza è poco chiara. Può esserlo per le Facoltà scientifiche, se si adottano criteri di valutazione internazionalmente riconosciuti (per quanto sempre perfettibili). Ma non si capisce se la quantità e la qualità delle pubblicazioni avrà una qualsivoglia efficiacia sulle differenze salariali che esprimono il merito. Una pubblicazione all’anno su una rivista di terz’ordine avrà lo stesso valore di due articoli su “Nature” e un su “Physical Review”? Aspettiamo precisazioni, prima di esprimere un giudizio definitivo, ma la materia si fa ancora più oscura se andiamo a vedere (e a valutare) il lavoro delle facoltà umanistiche. E poi perché un’università non deve poter scegliere il migliore e pagarlo per ciò che vale, se ne ha i mezzi?
Pura demagogia è, poi, lasciare agli atenei la facoltà di richiamare professori e ricercatori dall’estero, alle condizioni salariali e di disponibilità economiche per i laboratori di cui può farsi vanto il paese, come dare borse di studio ai meritevoli, ma per un anno, senza alcuna certezza che potranno accedervi in futuro, a prescindere dall’eccellenza dei risultati. Sembra quasi che ogni misura, ogni provvedimento sbandierato in nome del cambiamento, sia il tappeto sotto cui nascondere l’unico dato di fatto concreto e reale che emerge dai numeri. Il Fondo di finanziamento ordinario delle università sarà ridotto – nei prossimi anni, come scritto in Finanziaria – in misura considerevole. E il turnover di professori e ricercatori sarà ridotto al 20 per cento per i cattivi, al 50 per i buoni. I numeri dicono questo. E con una classe docente tra le più vecchie del mondo, con una ricerca che è la meno finanziata del mondo occidentale, con salari d’ingresso che sono già la metà di quelli europei, il futuro dell’università italiana non sembra glorioso.
È una punizione troppo severa per un’università che, nonostante tutto, continua a formare giovani di altissimo livello (altrimenti i cervelli ce li lascerebbero, anziché portarseli via…) e a produrre scuole di primo piano nel panorama della ricerca internazionale. Se si voleva punire i baroni, bisognava andare a stanarli a uno a uno nei loro studi (magari quelli privati, dove sotto i titoli incorniciati offrono consulenze a caro prezzo e senza fattura), non affondare l’intero sistema buttando fumo negli occhi all’opinione pubblica con la bella favola del vizio e della virtù.
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